Autenticità e falso sè
Entriamo ora più in profondità nella teoria winnicottiana, parlando della difesa del Sé e della genesi del “falso Sé” come ...
- Difesa del Sè
Entriamo ora più in profondità nella teoria winnicottiana, parlando della difesa del Sé e della genesi del “falso Sé” come tentativo funzionale di adattamento ad un ambiente che impedisce al bambino di manifestare la propria autenticità. Winnicott riconduce l’eziologia della malattia psicotica ad un mancato adattamento dell’ambiente al bambino durante lo stadio della dipendenza assoluta, in quanto la crescita della personalità dipenderebbe da una sensibilità ambientale ai bisogni individuali. La psicosi diventa quindi per l’autore una “malattia da carenza ambientale”, organizzata come difesa contro il trauma dell’angoscia mortale e quindi come un modo di rapportarsi alla realtà che non tradisce il Sé. Tra queste fa rientrare :
- distorsioni dell’organizzazione dell’Io che pongono la base di “caratteristiche schizoidi”, cioè dissociazioni o la “scissione” (splitting) che è l’”estremo della dissociazione e
- “lo sviluppo di un Sé che si fa carico delle funzioni adulte di cure e custodia e l’organizzazione di un Sé falso.
Il secondo tipo di malattia derivante da una precoce carenza ambientale è invece il cosiddetto il “falso Sé”, che analizzeremo qui di seguito[1].
Il falso Sè
La dinamica del vero Sé e del falso Sé è stata profondamente analizzata da Winnicott.
Alla base del pensiero di Winnicott c’è l’ipotesi che la psicosi affondi le proprie radici nel rapporto madre-bambino. Dall’osservazione dei pazienti psichiatrici, in particolare delle pazienti borderline, Winnicott osservò che, durante l’analisi, emergeva in loro il bisogno di ritornare ad una fase di dipendenza assoluta, per poter dare spazio ai bisogni rimasti inespressi e sviluppatisi quando il bambino non era ancora in grado di contenerle e significarle.
L’unico modo che il bambino trova per poter adattarsi ad una situazione potenzialmente traumatica e intollerabile, è attraverso lo sviluppo del Falso sé.
Winnicott riporta un aneddoto per descrivere la natura difensiva del falso Sé:
“Una donna di mezza età aveva un falso Sé molto brillante, ma aveva sempre avuto la sensazione di non esistere e di aver sempre cercato un mezzo per giungere al suo vero Sé. E’ ancora in analisi dopo molti anni. Nella prima fase (che durò due o tre anni) di questa analisi di ricerca notai di essere di fronte a quello che la paziente chiamava il suo “Sé-custode”. Questo “Sé-custode”:
trovò la psicoanalisi;
venne per saggiare l’analisi ponendosi come una specie di complesso test dell’attendibilità dell’analista;
la portò all’analisi;
gradatamente dopo tre anni o più cedette la propria funzione all’analista; (questa fu l’epoca della regressione profonda, con alcune settimane di dipendenza molto grande dall’analista);
bighellonava nei dintorni dell’analisi, pronto a riprendere la funzione di custode quando l’analista veniva a mancare (malattia o vacanza dell’analista…)” [2].
Emerge chiaramente come lo scopo del Falso è proteggere e nascondere il vero Sé, qualora non esistano le possibilità di lasciarlo esprimere.
Ciascuno di noi ha un Falso sé, che non costituisce necessariamente un problema; ciò che lo rende tale è semmai l’estensione e la forza con la quale il Falso Sé agisce e limita l’autentica espressione della persona.
Esistono quindi diversi gradi del Falso Sé che, a livelli più contenuti, si manifesta con l’atteggiamento educato dello “stare al mondo”, permettendo alla persona di essere, entro certi limiti, conciliante e ben adattata.
A livelli estremi, invece, il falso Sé esercita un’influenza così forte da sostituirsi completamente al Vero Sé, e rendendo la vita stessa futile in quanto non vissuta realmente.
- Intelletto e falso Sè
L’intelletto è per Winnicott essenziale per organizzare l’esperienza perché, è a partire da questa funzione strutturante, che viene progressivamente a crearsi il pensiero. Ciò permette al bambino la funzione di confronto che lo aiuta a fare previsioni che hanno lo scopo di salvaguardarne l’onnipotenza, ma parallelamente, l’elaborazione di funzioni (fantasia), arricchita di ricordi, sfocia in immaginazione creativa, sogno e gioco[3].
In questo modo il pensiero viene a realizzarsi come un aspetto dell’immaginazione creativa che serve alla sopravvivenza dell’onnipotenza ed è ingrediente essenziale dell’integrazione e dello sviluppo di una relazione sempre più complessa e evoluta.
Infatti, quando il bambino si avvia allo stadio della dipendenza relativa, l’intelletto diviene essenziale nella relazione madre bambino perché permette, al bambino di prendere coscienza dei dettagli concreti della cura materna e alla madre di servirsi della collaborazione dell’intelletto per affrancarsi progressivamente dai numerosi compiti che inizialmente le vengono richiesti nella fase della dipendenza assoluta del figlio.
In altre parole più è sviluppata la capacità intellettiva, più questa adempie funzioni che erano prima svolte solo dalla madre e ciò permette a quest’ultima di omettere sempre di più la sua risposta puntuale al bisogno.
Un esempio può forse aiutare a chiarire meglio questo passaggio.
Inizialmente, in una fase di dipendenza assoluta, il bambino che ha fame esige immediatamente la poppata. Con lo sviluppo dell’intelletto il bambino inizia a riconoscere nei rumori in cucina o nei gesti della madre, segnali anticipatori che informano dell’immediato arrivo del cibo e questo gli permette di aspettare senza vivere l’attesa con frustrazione, ma al contrario con la fiducia che il cibo arriverà presto.
“A volte però l’adattamento materno viene a mancare bruscamente o troppo presto, oppure le cure materne sono incoerenti e in questo caso il bambino è costretto a utilizzare il proprio apparato mentale come sostituto della madre, facendo da madre a se stesso[4]. E’ il caso del “”Cogito, ergo in mea protestate sum [5]”.
Questo processo porta il bambino a fare a meno dell’aspetto più importante delle cure materne, l’affidabilità e l’adeguamento ai bisogni fondamentali e lo induce a sviluppare un falso Sé, nel senso di una vita nella mente, scissa, mentre il vero Sé rimane nascosto o addirittura perduto.
Più è grande la scissione e la distanza tra il Vero Sé e il Falso Sé, più la persona si sente non realizzata, infelice e incompleta.
Esempi di questo tipo se ne incontrano spesso, soprattutto nella nostra società. Può essere ad esempio il caso di una persona invidiata da altri per la sua bellezza, ricchezza, salute, status elevato, professione ambita, ma che non riesce a trarre il piacere dalla propria vita[6].
Anzi, non solo non godono della soddisfazione del successo raggiunto, ma franano letteralmente in profonde angosce, mettendo in discussione l’intera immagine di Sé, durante le fasi più difficili.
Mentre scrivo queste parole, non posso fare a meno di ripensare al saggio di Lowen “Il Narcisismo: l’identità rinnegata”, nel quale il tema del crollo profondo e integrale, di tutta la struttura è legata indissolubilmente al crollo dell’immagine e dove è molto forte l’investimento in un ideale a scapito dell’autentico Sé della persona.
“(I narcisisti) sono altrettanto indifferenti anche ai propri più veri bisogni. Spesso il loro comportamento è autodistruttivo (…) amano la propria immagine (falso Sé) e non il proprio Sé reale”[7].
Ma proseguendo con le riflessioni mi rendo conto, forse per la prima volta in modo pieno, che tutti i caratteri di Lowen sono manifestazioni del Falso Sé, in quanto sono compromessi per la sopravvivenza che il bambino ha strutturato, negando i propri bisogni ( di esistere, di avere bisogno, di essere sostenuto, di essere libero, di poter amare), in quanto l’ambiente non era stato in grado di soddisfarli adeguatamente.
Tornando al tema dell’intelletto, è opportuno sottolineare come per Winnicott esso sia intrinsecamente legato allo psiche-soma.
L’intelletto, per l’autore, aiuta il bambino a rendere prevedibile e organizzabile la realtà esterna, e gli permette di avere un senso di continuità della propria esistenza, ossia di mantenersi integro anche di fronte a cambiamenti, interni o esterni che siano.
La continuità (e quindi il senso di Sé, n.d.a.) viene naturalmente interrotta da “fasi di reazione alle pressioni” [8] che regolarmente si verificano, ma che permettono al Sé di memorizzare l’esperienza di una rottura, che ritornerà utile durante la nascita.
Successivamente, il mantenimento della continuità è affidato all’ambiente: se questo è in grado di adempiere la propria funzione contenitiva, la continuità verrà preservata, ma se ciò non si verifica, il bambino verrà esposto a stimoli eccessivi che gli faranno sperimentare l’ angoscia.
E’ soltanto in un secondo momento, infatti, che il bambino impara ad utilizzare la sua attività intellettuale per tollerare gli eventi imprevedibili.
Se l’ambiente non garantisce la continuità d’esistenza, il bambino può ricorrere, per difesa, ad un utilizzo eccessivo dell’attività mentale e l’intelletto, anziché diventare uno strumento per rendere gli eventi comprensibili, rimpiazza letteralmente l’ambiente.
Dal momento che l’ambiente, si presenta privo di costanza, il bambino compensa tale carenza incrementando precocemente le funzioni cognitive, rispetto al normale sviluppo dello psiche-soma.
L’effetto di tale processo è la genesi di una scissione: la mente affiora dallo psiche-soma e inizia a fare le veci dell’ambiente, sostenendo lo psiche-soma al suo posto.
Il risultato di questo processo è il sacrificio della propria individualità ed autenticità, permutata con un necessario iperadattamento, essenziale per sopravvivere.
L’effetto è quello di una profonda insicurezza e di una sensazione di irrealtà, che può realizzarsi anche attraverso una crisi di identità totale, poiché il soggetto si è plasmato a tal punto da non sapere più cosa, in lui, è autentico.
Il bambino ha sviluppato la capacità di provvedere a se stesso, e in alcuni casi, come osserva anche A. Miller [9], ci si trova perfino di fronte ad un’inversione dei ruoli, nella quale il bambino diviene responsabile della madre. E’ questo il caso di bambini molto maturi e profondamente capaci di cogliere le necessità dell’altro, ma spesso, come detto, confusi riguardo ai propri bisogni e reali desideri.
[1] Per una trattazione più approfondita del tema si veda “M. Davis e D. Wallbridge, op.cit. Pag. 68 e
D.W. Winnicott, “Sviluppo affettivo e ambiente”. Roma, ed. Armando, 1970. Pag. 180.
[6] A. Miller, “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Riscrittura e continuazione” Torino, ed. Bollati, Boringhieri, 1996. pag. 17
[9] A. Miller “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Riscrittura e continuazione” Torino, ed. Bollati, Boringhieri, pag. 17.