Rimuginazione come surrogato dell’azione
L’uomo nasce in un contesto naturale e, all’interno di questo, limita
inizialmente la sua vita al soddisfacimento di quelli che possiamo chiamare bisogni primari: mangiare, dormire, riprodursi. Solo dopo che questi bisogni sono stati soddisfatti può passare a quelli di grado più elevato. D’altro canto quando il bisogno non viene soddisfatto, lo stato di tensione crescente porta a pensare a come perseguirlo. Questa modalità è la base dell’evoluzione dell’uomo, in quanto all’aumentare della complessità dei problemi è aumentata la capacità di pensiero e l’individuazione di nuove soluzioni creative. Quando attraverso il soddisfacimento di un bisogno si ottiene una scarica della tensione, in quel momento non c’è grande attivazione a livello di pensiero. In altre parole all’aumentare del benessere fisico, diminuisce l’accumulo di pensieri e rimuginazioni. Prova a pensare, quando hai fame e i crampi allo stomaco … in quel momento non riesci a pensare ad altro e ogni pensiero è orientato all’ascolto della sensazione di fame e a come provvedere a saziarti. Non è un caso che il modo più semplice di creare un pensiero fisso sul cibo in una persona è metterla a dieta. All’aumentare della privazione di cibo aumenta il pensiero ad esso collegato. Questa situazione la si osserva molto bene nei disturbi alimentari, dove il difficile rapporto con il cibo fa si che questo diventi ossessivamente l’unico oggetto dei pensieri, dei discorsi, della vita della persona. Il pensiero ha lo scopo duplice sia di aiutare la persona a raggiungere l’obiettivo in questione, ad esempio procurarsi da mangiare. Il pensiero ha però un’altra funzione che risulta essere molto importante, ed è quella di scaricare, attraverso l’attività immaginativa, parte della tensione che per qualche motivo non si è potuta esprimere attraverso un’azione. Questo concetto è molto ben espresso in un celebre libro di Giulio Cesare Giacobbe che troverai all’interno della bibliografia ragionata alla fine del libro. La concezione del pensiero come surrogato dell’azione trova molti riscontri nella quotidianità. Prova a pensare a quanto rimugini quando una situazione non si è conclusa e la persona in questione che ti doveva dire un grande segreto, all’ultimo non è potuta venire e devi aspettare fino al giorno dopo. Oppure un tizio che ti ha insultato e se ne è andato prima che tu potessi ribattere. O ancora prova a pensare a quando sei in attesa di avere notizie di un esame che hai fatto e devi aspettare il risultato. Altrimenti ricorda semplicemente a come riempivi di attese il tempo che ti separava dal primo appuntamento con una ragazza. Il pensiero quindi non solo serve a pianificare l’azione che ti permette di soddisfare il bisogno, ma anche di scaricare la tensione che per qualche ragione è stata impedita. Naturalmente questa attività è stata da un lato necessaria come evoluzione in grado di permette all’uomo un livello di socializzazione sempre più complesso e quindi di spostare il comportamento dell’essere umano da reazioni istintive a comportamenti ed atteggiamenti più “evoluti” e “sociali”. Anche il processo di socializzazione dei bambini consiste nell’insegnargli regole per individuare modalità socialmente accettabili di esprimere emozioni e comportamenti e il pensiero diventa molto utile a tale scopo. È il meccanismo che sta alla base della satira, dell’ironia, ma anche della diplomazia e di tante altre straordinarie modalità adattive dell’uomo. Tant’è che all’opposto si potrebbe dire che la guerra inizia dove finiscono le parole. Quindi dove è il problema? Come in ogni cosa, per usare le parole di Paracelso “è la dose che fa il veleno”. Piccole dosi di pensiero ti possono aiutare, ma cosa succede quando il pensiero inizia a diventare così invadente da impedirti di riuscire a concentrarti su qualunque altra attività della tua vita?