Efrem Sabatti - Psicologo a Brescia

Benzodiazepine e Alzheimer: una riflessione


Benzodiazepine e Alzheimer: una riflessione

Di recente sulla rete sta rimbalzando una notizia che ha destato profonda apprensione in una grande fetta della popolazione italiana e mondiale. La notizia, come molti avranno già compreso,



riguarda la correlazione che sembra essere stata individuata tra l’uso delle benzodiazepine e l’aumento statistico estremamente rilevante dell’insorgenza del morbo di Alzheimer. E’ una di quelle scoperte che rimbalzano come palline impazzite tra i social di tutto il mondo, anche perché la fonte è estremamente attendibile, il “British Medical Journal”. Ciò che ha destato maggior paura è il fatto che sembra che il rapporto tra consuso e patologia sembra instaurarsi in tempi relativamente brevi ( la ricerca parla di un consumo giornaliero protratto tra un periodo di 3- 6 mesi che aumenta il rischio di Alzheimer del 30%  e che, se superiore ai 6 mesi, alzerebbe la soglia di rischio fino al 60 – 80%). Il problema è che per molto tempo le benzodiazepine sono state prescritte e consumate con estrema facilità. Le famose “goccine” di xanax, valium, tavor, en, ansiolin, solo per citare le più famose, le ho viste consumate in grandi quantità sui banchi di scuola in questi anni, o da “nonni”, casalinghe, persone di qualunque fascia di età, sesso, classe sociale,  riferito durante i colloqui clinici con una normalità disarmante “a volte quando sono un po’ teso prendo qualche goccina” …  Purtroppo, emerge di nuovo un fenomeno che sempre di più riscontro e che ho ribattezzato “falsa scorciatoia”, la strada apparentemente più breve che si trasforma poi nel tragitto invece più lungo, tortuoso e soprattutto molto più costoso (non solo in termini economici). Apro una riflessione che spero possa farci soffermare un istante a pensare. Prima di tutto una piccola (grande) critica al mondo della psicologia che forse, sotto molti punti di vista, si è dimostrata a volte poco puntuale e focalizzata nel risolvere i problemi, proponendo protocolli vaghi ed interventi generali, poco chiari in termini di obiettivi e dalla durata dilatata nel tempo (benessere, miglioramento complessivo, migliorare disagio esistenziale, ecc). A mio avviso questo aspetto ha contribuito a generare nelle persone la scelta apparentemente più comoda e rapida. D’altro canto però, questa apparente soluzione magica (le goccine magiche ed economiche) impediscono di focalizzare l’attenzione su un aspetto essenziale: producono un cambiamento a livello chimico, ma non intervengono sui comportamenti, sulle dinamiche e sulle interazioni che la persona mette in atto e che spesso sono alla base poi dell’ansia e delle altre problematiche. Quindi, se la persona non acquisisce nuove modalità per fronteggiare il problema, o ricade nel problema una volta interrotto il trattamento o, come purtroppo tragicamente spesso accade, vedendo che la soluzione è pressoché (apparentemente) immediata, continua a consumare le sue “goccine” per tempi estremamente più lunghi di quanto consigliato. Ora, se le ricerche verranno confermate, queste persone pagheranno un prezzo personale molto alto e noi come società un prezzo sociale altrettanto elevato. Ribadisco, il proprio benessere è una questione personale e di responsabilità. Intraprendere un percorso psicologico è imprescindibile, perché la delega ad uno strumento esterno, non solo deresponsabilizza la persona interessata, ma non permette di cambiare le situazioni esterne che hanno posto in essere il disturbo. Ovviamente chi prende in cura deve avere un protocollo di intervento definito in termini di costi, obiettivi, modalità di intervento, durata del percorso, ma al di là di ciò è fondamentale che dalla parte della persona in questione ci deve essere la disponibilità a mettersi in gioco. Ogni terapia ha un costo e dipende se si vuole pagarlo immediatamente o più tardi, con gli interessi.

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